Catalogo: Curiosità per l'esotico, aromi e sapori speziati in Accademia

Da GIOVANVETTORIO SODERINI, Della cultura degli orti e dei giardini … ora per la prima volta pubblicato, In Firenze, nella Stamperia del Giglio, 1814



Ghiaggiuolo: niente di “esotico” e di “speziato” nel “Giglio azzurro”, come lo definiva Soderini; anzi pianta perenne “nativa dei luoghi montuosi di varie parti d’Italia, ma specialmente dei contorni di Firenze”, come scriveva qualche secolo dopo Antonio Targioni Tozzatti (Corso); familiare e consueta al punto tale che Firenze “sulle di cui mura si trova spontanea” l’aveva eletta a simbolo del proprio stemma. E tuttavia, grazie al suo particolare profumo intenso e vellutato, al suo sapore “acre amaricante”, oltre che entrare a pieno titolo “nella composizione di polveri odorose”, nelle miscele dei tabacchi da presa, nella fabbricazione “di certi saponi da tavoletta”, la polvere di giaggiolo veniva utilizzata in Cina, scriveva Antonio Targioni Tozzetti, per “aromatizzare certe varietà di the”. In questo caso dunque era l’accattivante profumo del nostrano giaggiolo che dava aroma e sapore all’esotico te.
Soderini ne aveva ricordato l’uso domestico delle radici che “monde sottilmente della lor buccia, e tagliate in lunghe fette sottili” venivano “poste in macero nella liscìa, e dipoi seccate all’uggia rivoltandole in su le tavole spesso”; una volta seccate ed infilzate in un filo, venivano poste “tra i panni lini, e lani per dare a questi odore ed a quelli, e di più difendergli dalle tignole”. “Gran procaccio delle barbe di ghiaggiuolo” erano infine fatte “per le tinte” per le quali venivano prima sbucciate ed essiccate.

Gallizioli: I. Florentina (GIAGGIOLO) Iris de Florence. Rad. tuberosa, nodosa. Scapo che per lo più porta 2 fiori. Fog. spadiformi, liscie, più corte dello scapo. Fiori che variano dal bianco candido, al celeste, fino al pavonazzo. Fr. nella Primavera.
Sul Magazzino Toscano era scritto che dai “pavonazzi” macerati e mescolati con calcina, si otteneva un residuo di “un bel color verde, col nome di Vert d’Iris ”che serviva per miniare “carte, e drappi, tingere fogli, ec.”.


Grogo: “o Grotrogo”, era per Soderini di due specie, “salvatica e domestica” e quest’ultima era quella che comunemente veniva denominata zafferano. Seminato in primavera “in luoghi grassi”, sui “ciglioni delle fosse”, lungo “i poponaj”, ne veniva raccolto il fiore mano a mano che lo si vedeva divenir colorito e cominciare a cadere. Posto su tavole in luogo riparato e salubre, si lasciava ad asciugare dopodiché veniva conservato per “fare offizio su le vivande”.
Originario dell’Asia per Antonio Targioni Tozzetti, era comunque presente in Francia, in Spagna, in Inghilterra, Austria, Italia; fino al XIII secolo era stato coltivato ampiamente anche in Toscana e successivamente era divenuto pianta spontanea. Bellissimo il colore, un giallo carico tale da tingere la saliva masticando i “fili crocei”; forte, inebriante e narcotico l’odore “capace di risvegliare dolore di testa”. Considerato in medicina come “sedativo, emenagogo, esilarante”, veniva utilizzato negli usi domestici, a detta di Targioni Tozzettii per “tingere di giallo certe specie di pane, alcune paste, certi formaggi (come per esempio quello detto Parmigiano), alcuni dolci, varj cibi, e molti altri oggetti, e come quasi condimento aromatico, piacendo a taluni quel suo odore”. Questo, era quanto scriveva nel suo Corso e nei suoi Cenni storici Antonio Targioni Tozzetti ne riaffermerà la notorietà presso gli Antichi: nella Bibbia, sotto il nome ebraico Carcon era ricordato per il suo odore; Omero, Plutarco, Teofrasto, Dioscoride, Lucrezio, Virgilio, Properzio, Ovidio, Marziale, Orazio ed infine Pietro de’ Crescenzi ne avevano decantate le virtù e quest’ultimo aveva descritto il modo di piantarne i bulbi e raccoglierne il prodotto. In Toscana era stato particolarmente coltivato nelle campagne di Montepulciano e della Val d’Elsa, dando vita ad un “profittevole ramo d’industria”. Decadutane la coltivazione, lo zafferano era stato poi utilizzato per le sue qualità tintorie ed oltre all’impiego già rammentato negli alimenti, era di uso comune presso i tintori di lana e seta.


Gallizioli: C. Tinctorius (ZAFFRONE, ZAFFERANO BASTYARDO, GROGO) Carthame officinal, Safran bâtard. Rad. a fittone, fibrosa. Stelo alto circa mezzo braccio, diritto, liscio, ramoso … Fog. alterne … Fiori di un giallo-rosso … Fr. dal Giugno al Luglio. Or. dell’Egitto.
Gallizioli descriveva contemporaneamente più piante volendo dimostrare la necessità di incentivarne la coltivazione sul suolo toscano; tuttavia riconosceva per primo che la cura di simili piante e la raccolta del loro frutto, richiedendo molto tempo, avrebbero troppo distratto “i Contadini dalle faccende più importanti”. Le donne ed i fanciulli avrebbero potuto dedicarsi tranquillamente a queste faccende liberando così gli uomini. Era impiegato essenzialmente nell’arte tintoria sia per ottenere il consueto colore giallo, sia un particolare punto di rosa adatto specialmente alle sete, chiamato “ponsò” rivelatosi però poco stabile.

[N.d.R.] Vedi anche la voce Zafferano trattata separatamente dagli autori.


Menta: la “salvatica è troppo sappiente ed acuta, la domestica è delicata e gentile”. Così Soderini parlava del sapore della menta, pianta odorosa che nasceva in campagna la prima, negli orti la seconda. Risalendo ai tempi antichi, citava Aristotele e la ricerca da questi compiuta sul senso di un proverbio che interdiva sia di piantare, sia di mangiare menta in tempo di guerra ed il filosofo greco era giunto alla conclusione che il senso del proverbio stava nel fatto che questa pianta debilitava i corpi “consumando il seme genitale, ove consiste la fortezza e la gagliardia”.
Pianta d’Europa, ma anche delle Canarie, dell’America e delle Indie, era nota, scriveva Antonio Targioni Tozzetti nel suo Corso per “l’odore grato” che tramandava grazie ad un olio essenziale che distillato ed unito ad “acqua odorosa” costituiva un ottimo e stimolante cordiale. L’olio era elemento usato anche nella profumeria “per comporre rosolj ed altre confetture, e le così dette pasticche di menta, le quali in bocca danno una sensazione di fresco”. La menta piperita poi era ancora più aromatica della comune e di un sapore molto più piccante e come l’altra veniva impiegata per gli stessi usi, soprattutto in Inghilterra.
In cucina, le foglie più tenere erano usate per confezionare delle insalate particolarmente aromatizzate.

Gallizioli: M. Viridis (MENTHA) Menthe verte, ou romaine. Steli numerosi, lisci, ramosi. Fog. Sessili, lanceolate, appuntite, liscie, con i denti radi. Fiori rossastri, a Spighe gracili, lunghe. Fior. nell’Estate. Com. negli Orti.
M. Piperita (MENTA PIPERITA) Menthe poivrée, ou d’Angleterre. Steli diritti, un poco pelosi, polloniferi. Fog. rotondo-ovate, picciolate, quasi liscie. Fiori rossastri, a Spighe corte, cilindriche, smussate in cima. Ind. nell’Inghilterra. Fr. nell’Estate.
Nell’uso alimentare grazie al suo olio essenziale la menta lasciava in bocca un senso “gratissimo di fresco”.


Pepe erbaceo d’India: Giovanni Vittore Soderini descriveva il “pepe erbaceo” che sarà identificato più tardi da Antonio Targioni Tozzetti nei suoi Cenni storici sotto gli appellativi di “pepe rosso”, “pepe indiano”, “pepe di Guinea”.
Per il senso del colore, per il cromatismo con cui l’autore cinquecentesco evocava questa pianta se ne riporta l’intera notazione:
“Il Pepe erbaceo d’India è di due sorte; una fa lunghi i baccelli, aguzzi nel fine, e dal loro attaccagnolo assai più grossi, lunghi quanto il dito indice; da prima è verde, poi quando è maturo diventa rosso; l’altro fa certe coccole come giuggiole rotonde della medesima maniera, prima verdi, poi rosse quando son mature; l’une e l’altre colte quando son fatte … si mettono così fresche in una schiacciata di pan crudo, e con essa incorporate, e dentro nascose, si mette quella schiacciata in forno a biscottare, dipoi si pesta tutto col pestello di legno nel mortaio, e fattone polvere s’adopra come il pepe nero … Fa il seme dentro a quelle boccie, e si semina di marzo in buona terra nell’aiuole degli orti, e ne’ vasi adacquando qualche volta: Ha le foglie simili al Solano, e s’alza due terzi di braccio”
Interessante l’utilizzo culinario descritto da Soderini che dimostra il segno di una minore avversione di quella avuta nei confronti di altre piante provenienti da lontani paesi, come ad esempio si vedrà verso il pomodoro. Le “aiuole” degli orti già ne accoglievano la coltivazione, insieme alle melanzane.
Come fosse giunto in Europa ed in Italia non è, né fu noto; incerta la conoscenza presso i Romani, secondo quanto scriveva Antonio Targioni Tozzetti nei suoi Cenni storici, come altrettanto incerta la sua patria d’origine. Illustri personaggi appassionati di botanica erano intervenuti in questo dibattito: Mattioli, Cisalpino, il “Rumphio”, chi assegnando la patria di origine del “pepe erbaceo” alle lontane Indie e “Cochincina”, chi facendolo nativo dell’America meridionale. Quanto poi al passaggio in Europa c’era chi lo faceva risalire alla metà del secolo XVI: dalle Indie era stato importato in Inghilterra per supplire al pepe; chi invece affermava che dalle Indie orientali, sua terra nativa, questi era poi passato in America e da qui in Europa.
Targioni Tozzetti ne attribuiva la diffusione nel sud d’Italia al dominio spagnolo, essendo “pianta di una comune coltura” in quella terra. In Toscana al contrario scriveva il medico Georgofilo era ancora “raro”, più coltivato “come una bizzarria per la grossezza e per il colore dei frutti” che per rendimento.
Qualche anno prima nel suo Corso, Antonio Targioni Tozzetti aveva descritto alcuni usi alimentari del “pepe erbaceo”, il cui sapore “fortemente acre, bruciante, analogo a quello del pepe, ma assai più piccante”, veniva smorzato “acconciandolo nell’aceto”; oppure i frutti, una volta maturi e seccati, erano usati per condimento dopo averli ridotti in polvere. Eccitanti e stimolanti, i peperoni venivano impiegati a scopo terapeutico in casi di scarlattina ed uniti alla china, costituivano rimedio “nelle intermittenti, ed affezioni letargiche, nella gotta atonica, nelle dispepsie”. La tintura infine veniva utilizzata nei gargarismi contro le affezioni dell’ugola ed un semplice grano di capsicina (scoperta nel 1822 da Witting) sparso in una stanza era sufficiente a provocare lo starnuto e a far tossire chi ne respirava l’aria.
Esisteva anche un’altra specie di peperone con frutti più grossi e di sapore “non pungente”, denominata “peperone dolce”, o “peperone di Spagna”, il quale veniva mangiato crudo “andantemente dal popolo di Napoli”.

Gallizioli: Capsicum Annum (PEPERONE) Piment annuel, ou des jardins, Poivre de Guinée, ou de Bresil, ou d’Inde, Corail des jardins. Stelo poco più di un braccio, angoloso, erbaceo, ramoso. Fog. lanceolate, appuntate, intere. Fiori bianchi …. Bacca rossa nella maturità. Fr. nell’Estate. Or. dell’Indie.
L’uso di “acconciarli” nell’aceto era noto anche al Georgofilo Filippo Gallizioli, il quale ne descriveva il procedimento: per due o tre giorni, i peperoni erano posti a seccare al sole e quindi collocati “in vasi verniciati, o di vetro, ricuoprendoli di Aceto, il quale dopo 15. o 20. giorni” andava mutato “sostituendovene un altro più forte”. Anche Gallizioli citava l’altro impiego di polverizzare i peperoni semi-seccati e adoperarli “per condimento in diverse pietanze”. Ricordava infine un’usanza dei “Popoli d’America” che li impiegavano contro la tisi, applicando nel ventre e nella regione lombare dei malati delle spine “immerse nel sugo estratto dalle bacche ben mature”. E per chiudere ricordava il gonfiore della labbra se malauguratamente venivano toccate da dita che precedentemente si erano avvicinate ai peperoni.

La storia del peperoncino si colloca tra l’incertezza della terra d’origine e le poetiche evocazioni stimolate dall’appellativo di “corallo dei giardini”.

Rafano: “È il rafano di potentissimo acuto pungente e piccante sapore, che mordica la lingua, e scalda a meraviglia il palato, e lo stomaco”. Così annunciava il rafano Soderini denominandolo “Rafano Tedesco” e ne descriveva ampiamente gli usi alimentari: ad esempio, la radice “grattugiata minuta” e cotta nel brodo, dava “grazioso sapore, ed in qualunque modo cotta con la carne”. Mangiata cruda, dopo il pasto, con aggiunta di sale, aiutava la digestione; il suo sugo infine faceva “ancor buona senza senapa l’acconciatura della mostarda” e seccata all’ombra e poi grattugiata e mescolata con “la carne grossa” dava “buon gusto”.
Pianta perenne, nativa dei luoghi montuosi ed umidi dell’Inghilterra, Svizzera, Francia, Germania, Transilvania ed anche Italia, era usata a dire di Antonio Targioni Tozzetti nel suo Corso, più in campo medico-terapeutico che non culinario. Le foglie, tenere e di sapore piccante non erano utilizzate; si utilizzava esclusivamente la radice (chiamata anche cren) che grattata e “intrisa nell’aceto” serviva di condimento ad alcuni cibi.
Al cren erano attribuite proprietà diuretiche, stimolanti; in Russia costituiva componente di un rimedio popolare nella dose di due dramme “raspata ed infusa nel vino o nella birra, ed anche nell’acqua semplice, per le soppressioni dei mestrui, e per la clorosi”.

Gallizioli: Coclearia Armoracia (CREN, BARBA FORTE). Cocléaria rustique, Grand raifort, Cren, Mostarde des capucins. Stelo alto un braccio, diritto, striato, ramoso nella sommità. Fog. … lanceolate … grandi. Fiori bianchi piccoli, a Grappoli … Fr. nell’Estate. Com. specialmente nell’Inghilterra lungo i fossi.
Pianta resistente ai freddi più intensi, andava particolarmente curata durante la calura estiva, “adacquandola” molto. Coltivata in grande nel nord Europa dove veniva usata la radice sia fresca, grattugiata sulle pietanze, sia combinata con l’aceto per essere adoperata “a guisa della mostarda”.


Rosmarino: pianta di “terre calde o temperate” doveva secondo Soderini, essere riparata dai venti ed esposta a “solatio”. Rigoglioso lungo “le coste e rive del mare”, il rosmarino rifuggiva i luoghi ombrosi ed umidi. I suoi fiori erano ritenuti da Soderini come “cordiali massimamente conditi con zucchero in conserva “ e colti e puliti “e in insalata mangiati” confortavano lo stomaco e rendevano “al fiato buon odore”. Tuttavia alcuni medici dei suoi tempi, quali lo Strada, ritenevano che cibandosene spesso, il rosmarino poteva provocare la renella “e la pietra”, ma se le foglie venivano colte con accuratezza, senza la parte legnosa e successivamente fatte bollire nell’olio “ed intrisone e rimenatone bene la pasta”, se ne poteva fare del pane “molto gustevole” capace di “riscaldar lo stomaco mangiato innanzi, e solo bevendovi sopra Greco”; altri ancora usavano abbrustolire le foglie fra due teglie roventi o in forno caldo, poi le pestavano e con aggiunta di olio facevano il pane. Le cime tenere “cotte fra i ceci” accrescevano “la lor grazia” e poste nell’arista “ed in tutte le cose arrosto che grasse sieno” arricchivano il sapore, così come le “cime tenere in piccola quantità mescolate con i tenerumi del cedro”.
Dopo dieci-dodici anni, la pianta doveva essere rinnovata e il suo legno secco bruciato nei focolari rendeva “la fiamma del fuoco chiara, e di se stesso buon odore”.
Italia, Europa, Asia minore: queste le patrie del rosmarino come si legge nel Corso di Targioni Tozzetti che da medico sottolineava l’effetto corroborante e stimolante dei fiori in decotto con altre piante aromatiche, così come associato ad altre ancora dava un ottimo aceto aromatico. Nei tempi andati si faceva anche un miele “detto antosato” in quanto vi venivano infusi dei fiori detti “anthos”, ed una conserva, oltre la famosa “acqua della regina d’Ungheria reputata antisterica e nervina”. Se in Francia ed Italia era usato abitualmente come “condimento per certe pietanze”, in Germania ed in altri paesi del nord Europa era “reputato pianta lugubre e di ornamento per i morti e per i sepolcri”.

Gallizioli: R. Officinalis (RAMERINO) Rosmarin. Stelo con molti rami muniti di un gran numero di foglie … di un odore aromatico. Fiori … piccoli, biancastri. Ind. crescendo spontaneo nelle colline delle nostre Maremme. Fr. quasi tutto l’anno
“Chi ama tenere le Api dovrebbe abbondare di questa pianta”, scriveva Gallizioli aggiungendo che poteva costituire anche un grazioso ornamento essendo “un frutice sempre verde”. Ingrediente di molte “acque aromatiche, e spiritose”, distillandone le cime fiorite, se ne otteneva l’olio essenziale. Infine era elemento aromatico di molte pietanze.

Timo: era di due varietà secondo quanto scriveva Soderini, “il nostrale e quel di Levante, maggiore quest’ultimo d’acutezza e d’odor e di sapore al gusto più pungitivo e sappiente”. “Vantaggiosissimo mêle” veniva alle api da questa minuta pianta la cui attenta osservazione da parte dell’apicoltore avrebbe fatto intuire a questi se la raccolta del prezioso prodotto sarebbe stata più o meno abbondante: infatti, se i fiori di timo sfiorivano presto (causa spesso delle piogge), significava sicuramente una scarsità di miele; se invece la fioritura perdurava a lungo, c’era la speranza di ottenerne molto ed ottimo.
Il miglior timo d’Italia era quello di Puglia, per Soderini, ma quello che eccelleva su tutti era quello che nasceva a Candia.
Pianta amante dei terreni secchi ed asciutti, trovava largo utilizzo in cucina nelle salse, “ponendone poco” però, avvertiva Soderini, e nei cibi in genere che “si bramavano acuti”.
Stessa cosa scriveva qualche secolo dopo nel suo Corso Antonio Targioni Tozzetti: “serve in cucina all’effetto di aromatizzare certi cibi” e ne annunciava l’odore forte, grato ed il sapore “aromatico caldo”.
Ritenuto tonico, stomachico, emenagogo, veniva utilizzato in Russia in infusione con acqua per medicare le infiammazioni degli occhi; grazie all’olio essenziale che conteneva, era pure impiegato ampiamente nella profumeria “per aromatizzare diversi medicamenti d’uso esterno”.

Gallizioli: T. Vulgaris (TIMO, PEPOLINO) Thym commun. Steli diritti, molto ramosi, a cespuglio. Fog. opposte, picciolate … arricciate in dietro, di un verde-biancastro. Fiori bianchi … Fr. dalla Primavera all’Autunno. Ind. dei monti della Spagna. Sempre-verde.
“Serve nei Giardini per contorno” aveva scritto Gallizioli esaltandone anche la facilità di propagazione, sia “per mezzo del seme”, sia separando le piante adulte da trapiantare in ottobre o in marzo. “Gratissima è l’essenza di timo”, aveva aggiunto Gallizioli, cosa che favoriva un ampio utilizzo della pianta “nelle cucine per odorare alcune pietanze”.

CACAO

“Pochi sono i giardini che posseggono questa specie, sebbene … essa non sia più delicata del caffè, e le convenga perfettamente la stessa coltura”. Così il Georgofilo Filippo Gallizioli scriveva relativamente alla coltivazione dell’albero del cacao, “simile” scriveva a quello del “ciliegio”.
“Né solo l’America possiede questo vegetabile, ma l’Asia ancora, poiché nasce nelle Isole Filippine, dove fu visto dal padre Giuseppe Camelli gesuita e ne’ scorsi anni dal sig. Sonnerat” si legge alla pagina 21 del volume primo della Storia delle piante forastiere le più importanti nell’uso medico, od economico colle loro figure in rame incise da Benedetto Bordiga, pubblicato a Milano presso Marelli nel 1791. L’opera in quattro volumi stampata nell’arco di quattro anni (1791-1794), è costituita da ampie descrizioni delle piante condotta da diversi autori: Luigi Castiglioni, Alfonso Castiglioni, Carlo Onofrio Mozzoni e Paolo Brambilla e le tavole che raffigurano con estrema accuratezza le piante di cui si tratta sono realizzate su incisioni dei fratelli Benedetto e Gaudenzio Bordiga.
Coltivazione un po’ complessa presso di noi quella del cacao scriveva Giovanni Targioni Tozzetti nei suoi Ragionamenti … sull’agricoltura toscana”, sebbene pianta utile all’uomo: “Per le medesime utilità, che ci arrecano i semi … sia lecito anche aggiugnere il caffè, il caccao, ed altre che appresso di noi richiedono una coltura assai dispendiosa”.
“Aggiungendovi lo zucchero necessario, un pò di cannella, o di vainiglia per aromatizzare, se ne forma la cioccolata”: così annotava Antonio Targioni Tozzetti nel suo Corso di botanica medico-farmaceutica e di materia medica stampato a Firenze nel 1847. “In Firenze” aggiungeva “se ne deve l’introduzione al Carletti dopo il 1600, e la prima cioccolata fu preparata alla fonderia della corte medicea, colla mescolanza di molti odori, per esempio, di ambra, di muschio, di giunchiglie ec. Secondo il costume di allora. Dopo la spezieria reale, il primo a mani-polare e vendere la cioccolata in Firenze, sotto specie di medicamento cardiaco fu uno speziale Tozzetti nella Vigna, a tempo di Ferdinando I”.

Della cioccolata, bevanda corroborante e di gusto delizioso, ma genere di lusso e dunque destinata a non comparire alla mensa dei poveri offrì la ricetta di un prodotto succedaneo il Georgofilo Saverio Manetti. Di sua mano esistono due redazioni, con varianti l’una rispetto all’altra, di una “specie di cioccolata” i cui ingredienti e modalità di preparazione sono scritti a margine di tre copie di lavoro conservate presso i Georgofili (R. 584) del suo trattato Delle specie diverse di frumento e di pane siccome della panizzazione stampato a Firenze, presso Giovacchino Pagani nel 1765, utilizzate per una revisione dell’opera con aggiunte e correzioni autografe, pro-babilmente in vista di una nuova edizione.
Riportiamo uno dei due testi, per l’altro si rinvia alla scheda n. 83 del volume In cucina … ai Georgofili … edito a cura di Lucia Bigliazzi e Luciana Bigliazzi nel 2001

“Quivi deue esser descritta una specie di cioccolata economica stata inuentata e praticata da qualche anno in qua nell’Alsazia, la quale se non ha tutte le qualità della vera cioccolata ella ne ha il colore, qualche specie di sapore, ed è soprattutto più nutritiva. Si mette in un vaso, o padelletta di ferro sopra il fuoco e cucchiaiate di fior di farina, che si fa tostare o diuenir rossa così a secco dimenandola sempre con un mestolo, o spatola di legno; quando questa farina volta al nero dolcemente vi si uersa una quantità di latte, come sarebbe di una pinta, rimescolando sempre come sopra tal materia, e vi si aggiunge un poco di cannella, e una certa quantità di zucchero, lasciandola poi bollire preso a poco come la cioccolata senza mai tralasciare di agitarla, e frustarla; quando ella è così fatta, e bollita vi si aggiungono due rossi di uovo, si ritira, e si mesce in tazze come appunto si costuma mescere la cioccolata uera o comune”

Da Milano il Georgofilo corrispondente Antonio Cattaneo trasmetteva nei primi anni quaranta dell’Ottocento un suo studio concernente una Polvere alimentare preparata coi pomi di terra. Il tema della coltivazione e dell’utilizzo alimentare della patata era come noto assai dibattuto fra gli agronomi e Cattaneo in sostanza portava voti a favore di coloro che sollecitavano l’ampio utilizzo del prezioso tubero. La polvere alimentare di cui il Georgofilo milanese trattava nel suo scritto era già stata usata in preparati alimentari e in bevande, come è dimostrato dal manifesto a stampa che reclamizzava una “cioccolata analettica” i cui ingredienti di base erano “cacao Caracca, … cannella di Ceylon e zucchero d’Avana” oltre a “farina di pomi di terra”. La cioccolata analettica per la cui confezione erano date dosi e modalità di unione dei diversi ingredienti poteva essere unita al latte, alla panna ed anche alla “tintura di caffè” ottenendone in questo caso “una bibita graditissima”. Gli usi poi cui questa cioccolata era destinata “sono” si legge “per quegli individui afflitti da debolezza e da malattie di languore; per coloro che soffrono di catarro cronico polmonare”; era inoltre raccomandata “singolarmente … a quelle persone” che erano state “vittime di affezioni acute gravi”. Ultima notizia: la cioccolata analettica si vendeva nella farmacia di Giovanni Battista Cabiati sull’angolo della contrada dei Moroni, corso Porta Romana, n. 4155.

TE’

Origine divina questa pianta la cui conoscenza risale al tempo più remoto. Furono le “palpebre di Darma” terzo figlio di Kasiuwo re degli Indiani che volle punire se stesso amputandosi le palpebre per aver mancato al suo voto di vegliare costantemente e ininterrottamente al fine di non cadere addormentato. Le foglie della piccola pianta che scaturì dalle palpebre abbandonate sul terreno infusero a Darma prima e successivamente ai suoi discepoli allegrezza di cuore, lucidità di mente e così fu possibile proseguire sulla via della meditazione per purificare il proprio corpo e il proprio spirito.
In Giappone era consuetudine coltivare il tè ai margini della campagna e nei giardini ed un’antica tradizione anche letteraria aveva fatto della cura per questa pianta e per l’infuso che da essa si otteneva un vero e proprio rito cui attendevano le donne con quella minuzia e delicatezza di gesti faceva parte della loro educazione e che contraddistingueva il loro operare.
E’ nota la storia che lo introdusse in Europa soltanto all’inizio del diciassettesimo secolo grazie alla compagnia olandese alle Indie che ne fece ampio commercio, ma fu solo alla metà del secolo che ne furono esaltate le virtù terapeutiche che ne favorirono la coltivazione e la diffusione dapprima in Olanda e successivamente in Francia e poi in Inghilterra. Portare le pianticelle di tè dal lontano Oriente in Europa non fu certo cosa facile: il lungo viaggio, le condizioni ambientali e gli animali divoratori (primi fra tutti i topi) che infestavano le navi, distrussero molte delle partite destinate ai botanici e studiosi europei; fu Linneo che per primo ne ricevette e siamo già nella seconda metà del Settecento, le prime piante, da allora tutti i giardini botanici dedicarono spazio alla coltivazione di questa pianta che dimostrò così di poter vegetare senza difficoltà anche nel nostro clima e all’aria aperta. “Se il tè può resistere all’aperto nei climi settentrionali” si legge nella Storia delle piante forastiere stampata a Milano presso Marelli dal 1791 al 1794 , “più facilmente dovrà reggere sotto il temperato cielo di Lombardia”.
Anche Giovanni Targioni Tozzetti nei suoi Ragionamenti … sull’agricoltura toscana nelle Riflessioni sopra il metodo di studiare l’agricoltura esposte ai sig. accademici Georgofili il dì primo Giugno MDCCLVII che costituiscono la prima delle sei “operette” raccolte nel volume, scrive del tè annoverandolo fra le piante ad uso medicinale: “In terzo luogo, per uso della medicina, il papavero, la sena, il laudano, il rabarbaro, il thè, ed il tabacco, sebbene questi ha uso più generale per il piacere”.
Antonio Targioni Tozzetti nel Corso di botanica medico-farmaceutica e di materia medica (1847) oltre ad offrire un elenco dettagliato delle diverse qualità di tè verde (thè Hyson, Yut-leen, Hyson-Schoulong, Hyson-Skin, thè polvere di cannone, thè bin o imperiale, thè ton kai) e di tè nero (thè pekoe, Pekoe d’Assam, Orange Pekoe, Hung-Muey, Congo molto usato in Russia, Souchong, Pou-chong, Ning-Yong, Hou-Tong, Campuy, Caper-Scwang-che, Buy), evidenziava le sue “proprietà igieniche e medicinali” soggette sovente come egli stesso rilevava a pareri contrastanti. Avvertiva inoltre che in Oriente era consuetudine di aromatizzare il tè in particolar modo quello destinato al commercio: vi si mescolavano infatti “fiori di Olea fragrans, o di Camelia sesanqua, o di mugherini, o di aranci, o di Magnolia Julan ed anche probabilmente per i tritumi che vi si trovano mescolati colle foglie di vitex pinnata, di chlorantusi incospicuus, coll’anacio stellato, coll’ireos, colla curcuma ec.”
Alcune volte notava il Georgofilo si trovava in commercio anche tè colorato artificialmente, particolarmente grazie all’uso “dell’azzurro di Berlino” che in gran quantità veniva esportato verso la Cina; all’ “azzurro di Berlino” era unita talvolta anche della curcuma. L’indaco era ugualmente utilizzato per produrre una bevanda colorata; vi era aggiunta anche in alcuni casi polvere di talco. Infine il colore verde con cui si presentavano diverse qualità di tè era ottenuto aggiungendo all’indaco e al solfato di calce il cromato di piombo. Inutile aggiungere che tutte queste adulterazioni provocavano come notava Targioni Tozzetti “sconcerti di salute”. Raccomandazione pertanto ai farmacisti e droghieri affinché vigilassero contro queste frodi.



PEPE

Pepe nero, pepe bianco, pepe lungo, pepe cubebe, pepe codato: tutti con un “timbro d’esotico” che ricordano paesi lontani, le lontane Indie orientali, Giava, Sumatra, il Bengala; il Brasile, la Guiana sono le varietà descritte da Antonio Targioni Tozzetti, tutte “brucianti e stimolanti, eccitanti, afrodisiache”. Usate nella farmacopea contro l’anoressia, la malaria “per la quale è un rimedio popolare antichissimo presso i Morlacchi, in Germania, ed in Inghilterra, bevendone l’infusione nell’acquavite o nel vino”, erano però per l’autore, da assumere con cautela poiché l’abuso “come condimento, e come medicamento” provocava irritazioni ed infiammazioni, anche gravissime.
Targioni Tozzetti levava la sua voce contro i ciarlatani che decantavano il pepe come rimedio contro l’idrofobia; rammentava comunque l’uso nelle campagne di darlo da mangiare in chicchi alle galline, ciò che provocava loro di “far più presto le uova”.

Galleria Immagini Dal Giardino della Società Toscana d'Orticoltura